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2023-04-23

Riflessioni sulla Tragedia a Specchia

Home - De Giovanni Luigi pittore contemporaneo - Creazioni d'arte - Cagliari




Riflessioni sulla Tragedia a Specchia

Quando ho iniziato a frequentare Specchia, sin dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, ho sentito parlare dell’eccezionale evento della Tragedia che veniva rappresentata ogni quindici anni, grazie all’impegno di molti cittadini che si calavano nelle varie parti interpretandole con fede, fervore e con i mezzi stilistici e tecnici che si avevano a disposizione. I cittadini, attori dilettanti, venivano così investiti dall’alto compito di far cogliere al pubblico il significato del sacrificio di Gesù al fine della salvezza degli uomini. Ho sentito i racconti dell’espressività genuina e partecipata riguardanti alcuni attori che nelle vesti di Lucifero e dei diavoli tuonavano con voce potente nell’interpretazione dei progetti maligni assegnati dal ruolo; fiamme infernali create con luci rosse che si innalzavano a dare maggiore credibilità alla scena: in questo senso mi ha molto incuriosito l’uso di polvere di pece, lanciata sapientemente sul fuoco, per creare fiammate infernali. Ho conosciuto Valeria Polimena, una gentile signora, che mi ha raccontato di quando interpretò l’angelo volante dopo essere stata ancorata con delle corde, grazie ai marchingegni fatti di sana pianta da suo padre, che la fecero arrivare dall’alto nella scena proprio nel momento opportuno. Mi hanno narrato del palco creato di volta in volta con precisione dagli artigiani del paese che, con strumenti rudimentali, facevano miracoli sino a fabbricare fondali e quinte, dipinti con cognizione, che scorrevano puntualmente al momento programmato, dando pienamente l’idea della scatola scenica che diventa il palco nelle rappresentazioni teatrali. Ho ascoltato i racconti sulle varie e differenti interpretazioni del tradimento di Giuda che lo condurrà alle terribili pene dell’inferno, sull’opportunismo di Caifa, del sinedrio e di Ponzio Pilato, sulla cattiveria del cieco Longino e del centurione che poi si pentirono confidando nell’infinita misericordia di Dio sino a professare la fede con umiltà sulle tre donne così partecipi che pareva avvertissero profondamente il dolore e piangenti si disperavano seguendo Gesù: fra loro emergeva chi si calava nelle vesti di Maria in tutta la sua sofferente maestà di madre addolorata. Gli attori interpreti dilettanti di Gesù, l’Agnello Sacrificale, erano così convinti che nella recitazione trovavano in loro la fede che li portava al dolore dell’Uomo figlio di Dio rassegnato alla volontà del Dio Padre per far dono agli uomini del perdono e della salvezza. I racconti e i giudizi sulle interpretazioni della meschinità del Sinedrio e di Ponzio Pilato che amministravano la giustizia nell’ingiustizia e nell’egoismo sino alla condanna di Gesù. Mi avevano raccontato che il testo originale, risalente all’ottocento e rappresentato nel 1838 per la prima volta, essendo troppo lungo e molto impegnativo, venisse suddiviso e rappresentato in due giorni, questo fece sì che fosse adeguato e ridotto per poter fare in modo che tutto si rappresentasse in circa tre ore.  

Ringraziando la Pro Loco, il Comune di Specchia e Temenos, il regista e tutti gli attori e i tecnici, finalmente, dopo aver ascoltato i racconti e i giudizi delle edizioni più recenti, ho avuto la fortuna d’assistere e vivere “La Tragedia”. 


Sapevo che sin da ottobre un gruppo di persone, sotto la guida del perfetto regista Marco Antonio Romano, era impegnato nella preparazione dell’edizione 2023 della Tragedia di Specchia. Curiosa come non mai ho avuto il piacere di seguire una delle ultime prove che mi ha predisposto molto positivamente a voler assistere, nonostante il freddo intenso, alla bellissima edizione di quest’anno. Mentre seguivo, molto interessata, immaginavo le preoccupazioni degli attori e di tutti gli operatori, le ansie per le possibili défaillance o per il mal funzionamento dei mezzi tecnici ma niente d’importante, che potesse pregiudicare la buona riuscita della rappresentazione, si è verificato. Qualcuno, ricordando le edizioni passate, può aver sentito la mancanza di scenografie conosciute ma a me tutto è apparso meravigliosamente bello. Infatti, pur non essendoci il classico allestimento scenico e la tanto amata fiammata infernale, ho molto apprezzato questa edizione perché il gioco di luci rendeva il clima molto attinente e giusto: quasi magico. La rappresentazione viene annunciata da un sottofondo musicale e dal coro, sotto la direzione di Deborah De Blasi, Claudia Procula solo voce, che suggeriscono una malinconia e una dolcezza inusitata. Un violino pare voler accentuare queste mie sensazioni. L’attesa comparsa di Lucifero, maestoso principe degli inferi, ci mette davanti alla bravura di un molto convincente Santino Giangreco che recita con sicura dizione e competenza. L’arrivo di Giovanni Santoro nelle vesti di Astarot e di Enza de Rinaldis in Asmodeo hanno evidenziato i progetti maligni in un’interpretazione perfetta, con balzi, movenze e toni di voce a volte alti e aggressivi che calavano per segnare maggiormente le intenzioni. La scena, esaltata da luci capaci di suggerire climi infernali, è coerente con l’intenzione del testo. Quest’atmosfera mi ha fatto pensare ai racconti riguardanti le precedenti edizioni dove proprio a questo punto molti bambini terrorizzati piangevano promettendo d’essere buoni al fine d’evitare le fiamme infernali: non so se i bambini di oggi siano ancora così timorati. Le preoccupazioni di una intensa e amorevole Maria sono rese dalla capacità di Laura Boccadamo di appropriarsi della parte e di rivolgersi al figlio Gesù, un Luigi Ricchiuto sublime, sapendo dar espressività al momento di drammaticità e sentimento che si stava vivendo. Nell’efficace interpretazione di Giuseppe Giangreco il discorso di Giuda, che ascolta l’insinuante e persuasivo Astarot, mi fa pensare all’attualità dove pare che solo la ricchezza abbia importanza e per questa si è disposti a tutto. La rappresentazione si fa sempre più denuncia delle debolezze degli uomini che spesso esercitano la giustizia nell’ingiustizia come nel sinedrio (Enzo Pizza, Gianfranco Masciali, Franchino Caloro, Franco Pizza, Nicola Baglivo il cui sforzo per migliorare la sua dizione e nel calarsi nell’apostolo Raban ha dato buoni risultati in scena e infatti ha mostrato d’aver completa padronanza della parte e atteggiamento e recitazione consona, Alessio Giuliano, Tommaso Fiorentino). Un altero Caifas (Alberto Branca) fa pensare alla paura di perdere il potere, agli errori di valutazione che ancora oggi capitano per opportunismo, interesse o superficialità: anche nella tragedia emerge questo e infatti a nulla sortisce la difesa di Gesù fatta da Giuseppe D’Arimatea, l’espressivo Fernando Branca. Infatti Caifas, sollecitato dalla maggior parte dei sacerdoti che vogliono la morte di Gesù, ne comanda al centurione l’arresto. Il centurione, un deciso e imperioso Giorgio Biasco, dà disposizione ai soldati affinché vengano eseguiti gli ordini del gran sacerdote. A palazzo c’è aria di intrigo infatti il centurione e Giuda contrattano il tradimento. I trenta denari, d’argento, risuonano mentre passano di mano e il che ci riporta ai nostri giorni dove nella società dell’apparire facilmente per soldi si compiono le peggiori iniquità. Si battono i denti per il freddo ma la rappresentazione prosegue e gli attori, che appaiono convincenti e sicuri nei ruoli, si muovono senza titubanza nello spazio scenico minimale: creato con elementi essenziali e luci significative. L’ultima cena, in piedi come nei moderni buffet, è molto convincente e di grande intensità, sublime è il momento in cui Gesù spezza il pane alzando le braccia al cielo divinizzandolo nel più grande significato del corpo di Cristo. L’angelo, Ilenia Brugnara, appare amorevole nel parlare a Gesù che nello scoramento è conscio di dover accettare il calice amaro che lo porterà all’eterna vittoria. I tradimenti son compiuti e il perfido diavolo trama per la salvezza di Gesù e l’albero, quasi minaccioso, incombe sul traditore Giuda un perfetto, nell’interpretazione, Giuseppe Giangreco che sino alla fine si è calato negli stati d’animo della perdizione. Sublime è stato il discorso, intriso di profonda emozione, che fa Gesù ai suoi discepoli facendo si che Luigi Ricchiutto emerga come attore consumato capace di affrontare una parte dove gli stati d’animo sono alla base del ruolo. Che dire poi dei tradimenti quasi annunciati negli atteggiamenti dell’interpretazione di un insicuro e titubante Pietro, reso nel migliore dei modi da Giuseppe Antonazzo o del mite Giovanni, che Luigi Pecoraro fa rivivere in modo eccellente, stando sempre vicino a Maria che pare soffrire realmente per il supplizio patito da Gesù addolorato che preconizza tradimenti ed eventi. Nella scena cinque dell’atto secondo le tre donne recitano in modo esemplare ed emerge il dolore di una madre che cerca giustificazioni e implora rivolgendosi a Giuda, a Giovanni e a Pietro mentre Maddalena e Marta, che hanno due perfette interpreti in Ilaria De Giorgi e Sonia Cardigliano, cercano di consolarla esortandola alla rassegnazione. In questa accorata scena troviamo il dolore di ogni mamma che deve accettare la perdita del proprio figlio. Intanto un incerto Pietro, che rinnega Gesù, si rivolge a Samuele, un Luigi Musio che riesce ad essere convincente e sprezzante al pari di Ancilla, Maria Teresa Panarese e Malco, Francesco Giunca, tutti sempre all’altezza del ruolo.

Giuda ragiona e riflette sul suo tradimento e nel dialogo con Asterot viene fuori una coinvolgente scena di teatro d’alto livello perché i due interpreti danno l’anima per essere persuasivi e calarsi nei ruoli. Nel dialogo di Pietro con Asmodeo i due interpreti sanno far cogliere la perfidia sottile del diavolo che riesce a creare incertezze nel già titubante traditore Pietro che fa avvertire il pentimento, il senso di colpa e la disperazione. Una scena dinamica che viene esaltata dalle luci dirette con molta precisione ad evidenziare con efficacia un’atmosfera campestre. 

Nella città ,intanto, Giuda, colpevolizzato dall’insidioso Asterot, paventando la triste sorte che lo aspetta, è un Giuseppe Giangreco che riesce ad essere sempre sul testo in modo impeccabile: trasmettendo al pubblico ripensamenti, dubbi e preoccupazioni per l’atto che si accinge a compiere. Una scena drammatica dove i due magnifici attori sanno calarsi nel migliore dei modi nei personaggi sino a rendere gli stati d’animo e la situazione di Giuda, prigioniero delle trame diaboliche, veramente convincenti. 

Nella reggia, Francesco Corchia che interpreta Pilato appare realmente  sicuro nel ruolo che lo porta a condannare Gesù, nonostante i suggerimenti di Asterot, un sempre bravissimo Giovanni Santoro che ha saputo recitare con convinzione, come vuole il popolo sobillato dai sacerdoti e come espressamente chiesto dal Centurione, interpretato da Giorgio Biasco in grado di calarsi perfettamente nell’essenza del personaggio mostrando fermezza anche nell’immedesimarsi nelle vesti d’un cattivo soldato  che è  capace però di non cedere ai consigli di Asterot. Giorgio è stato puntuale in ogni momento della sua parte, simulando il pentimento e la rinuncia agli agi del suo stato che solo la misericordia di Dio sa significare.

Nello spazio della scena le luci, i costumi e i simboli ci conducono alla Reggia dove ha inizio il supplizio di Gesù e qui che la capacità di Luigi Ricchiuto diventa espressività pura nel raccontare gli eventi. Giovanni in uno struggente monologo occupa tutta la scena seconda dell’atto quarto e qui Luigi Pecoraro dà il massimo. 

I climi cambiano e il dolore di Maria, che assiste alla mortificazione del figlio, è così reale che fa di Laura Boccadamo un’attrice abile nel calarsi nel dolore e nei sentimenti sino a far percepire la santità della Madonna madre di tutti. In lei ho visto grande attitudine interpretativa e soprattutto la rappresentazione della sofferenza accettata di una madre vera. La madre di tutti ha avuto con lei un’espressività coinvolgente e attinente alle esigenze del testo. Un essenziale, ma d’una bellezza struggente, calvario, giusto nell’atmosfera, è reso con una croce priva d’ogni orpello dove Gesù di Luigi Ricchiuto, vestito con una leggera e corta tunica bianca, ci trasmette il dolore e il senso del perdono. Qui il cieco Longino è interpretato da Silvano Maisto che riesce con convinzione ad esprimere rabbia e cattiveria nel colpire Gesù, subito dopo, è capace di calarsi, in modo convincente, nel pentimento di chi, miracolato, si converte sino a vivere la fede con amore palesando la grandezza della misericordia di Gesù. Vorrei scrivere tanto sulle sensazioni trasmesse dall’infreddolito e sofferto Luigi Ricchiuto nelle vesti di Gesù in croce deriso e umiliato. Luigi ha dato una grandissima prova calandosi nella sofferenza e nella misericordia, che ha emozionato e coinvolto tutti i presenti. L’intonazione delle sue angosciose parole è stata così coinvolgente che ha commosso gli spettatori capaci di un lungo e sentito applauso che riporta alla festa di risurrezione. Ho ascoltato ed apprezzato la poesia e la dolcezza del canto di Roberta Branca, interprete della Veronica, che asciuga amorevolmente Gesù con il panno di lino. Mi ha incuriosito parecchio Ilaria De Giorgi nelle vesti di Maria Di Magdala perché anch’io ho avuto la ventura di posare per Luigi De Giovanni quando fece un’opera sulla Maddalena al santo sepolcro. Ho visto le ansie di Ilaria e ho ricordato le mie, ho visto il suo amore per Gesù e mi sono rivista stanca della lunga posa e poi triste quando l’opera venne venduta al prezzo giusto o meglio per me svenduta perché ritenevo che quell’opera bellissima non avesse prezzo. Brava Ilaria sei stata capace di vivere Maria di Magdala nel migliore dei modi. 

Gli angeli appaiono quasi in punta di piedi e si avverte l’accuratezza nello studio di Caterina Greco e Greta Sanapo che con tenerezza sentita, mesti e consolatori donano quella poesia angelica che solo i bambini sanno trasmettere. Tutto porta alla misericordia di Gesù. La sofferenza di chi lo ha interpretato non è solo una finzione scenica perché, sicuramente, nelle gelide notti di questa Pasqua ha realmente tremato e sofferto il freddo. Anche gli attori che hanno avuto parti minori si sono rivelati precisi nell’interpretazione e negli atteggiamenti dimostrando che insieme si possono raggiungere grandi risultati e che in una rappresentazione anche una sola battuta è indispensabile al fine di un’ottima riuscita, in questo caso la Tragedia di Specchia ecco perché mi fa piacere ricordare tutti i loro nomi: Malco Francesco Giunca, Alciste Daniele Indino, Ripas apostolo Franco Pizza, Teras giudeo apostolo Enzo Pizza, Nicodemo apostolo Tommaso Fiorentino, Potifar giudeo apostolo Francesco Caloro, Josafat giudeo apostolo Gianfranco Masciali, Ancilla Maria Teresa Panarese, Diaribas giudeo apostolo Alessio Giuliano, giudeo e apostolo Gino Vincenti, Samuele servo e apostolo Luigi Musio. 

Che dire poi della regista che ha diretto magistralmente la rappresentazione dando significato all’impegno di tutti gli attori, che si sono presentati in scena sempre con abbigliamento idoneo alle situazioni, ai ruoli e al periodo. Anche le sue scelte sceniche, che potevano creare sconcerto, si sono rivelate efficaci e convincenti.  

Nella speranza che questa compagnia teatrale possa regalarci nuove rappresentazioni complimenti a tutti: attori, regista, collaboratori e organizzatori.   

                           Federica Murgia


2021-05-13

“e il naufragar m'è dolce in questo mare” mostra personale itinerante di Luigi De Giovanni










“e il naufragar m'è dolce in questo mare
mostra personale itinerante di Luigi De Giovanni
Scuderie, Palazzo Gallone – TRICASE (Lecce)
Inaugurazione: 18 dicembre 2016 alle ore 18:00
Dal 18 dicembre 2016 al 6 gennaio 2017


Luogo: Tricase (Lecce), Palazzo Gallone, Scuderie
Data: dal 18 dicembre 2016 al 6 gennaio 2017
Patrocinio: Comune di Tricase
Curatore: Antonietta Fulvio
Organizzazione: Assessorato alla Cultura del Comune di Tricase
in collaborazione con Il Raggio Verde edizioni e associazione “e20Cult”
Orario: tutti i giorni dalle ore 18 alle 21 con ingresso libero

Ritorna a Tricase, nelle Scuderie di Palazzo Gallone, dal 18 dicembre 2016 al 6 gennaio 2017, l’artista Luigi de Giovanni presentando il corpus di opere dedicato alle marine salentine e racchiuse nel progetto artistico, “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, prendendo in prestito dal grande poeta Giacomo Leopardi l’ultimo verso de “L’Infinito”. Una mostra itinerante partita proprio da Tricase nel 2014, con il patrocinio del Comune di Tricase in collaborazione con Il Raggio Verde edizioni e l’associazione “e20Cult”.
Una mostra fortemente voluta dall’assessore Sergio Fracasso perché “Con il segno e i colori Luigi De Giovanni ha ‘dipinto’ le nostre coste puntando l’attenzione sulla salvaguardia dell’ambiente e sulla valorizzazione dell’immenso patrimonio naturalistico salentino. Una mostra, dunque, che rientra perfettamente in tema di sostenibilità ed ecologia che sono al centro della nostra attività culturale.” 
Un omaggio al mare, e alla natura, nel solco di un percorso personale dell’artista che continua la sua ricerca nel segno della ri-scoperta del paesaggio. E ha continuato a dipingere la luce e i luoghi, rigorosamente en plein air, costruendo un itinerario pittorico che ha attraversato i comuni che gravitano nell’area del Parco Naturale Regionale “Costa Otranto S.M. di Leuca - Bosco di Tricase”: Alessano, Andrano, Castrignano del Capo, Castro, Corsano, Diso, Gagliano del Capo, Ortelle, Otranto, Santa Cesarea Terme, Tiggiano e Tricase. Costa dopo costa, l’artista ha tracciato un percorso che è materia e colore, segno e memoria. Perché l’arte sia uno strumento di valorizzazione e di promozione dei luoghi e di un ritorno ai luoghi per un approccio più autentico con la Natura. La mostra, è un percorso ricco di fascino e di storia e conclude l’omaggio dedicato alle marine salentine partendo dalla punta del tacco, Santa Maria di Leuca, fino a risalire la bellissima costa adriatica e giungere ad Otranto che con il suo faro, la Punta Palascia, è l’estremo più orientale d’Italia.
In mostra, dunque, - spiega la giornalista Antonietta Fulvio - scorci di luoghi incantevoli da angolature insolite, quasi frugando tra chiome di alberi che lasciano intravedere il mare percorrendo una strada che porta a Leuca, o il Ciolo nascosto tra i rami della macchia mediterranea capace di stordire con i suoi profumi, e ancora le misteriose Grotte Cipolliane, che si aprono lungo l’omonimo sentiero che percorre la litoranea che da Otranto arriva a Santa Maria di Leuca, la bella Finis Terrae e dove, probabilmente, il poeta Virgilio immaginò il primo approdo di Enea in Italia.
Instancabile ha percorso e si addentrato nei boschi per scoprire inquadrature di una bellezza mozzafiato che ha trasferito sulle sue tele a colpi di spatola calibrando luce e colori come nel dipinto che ritrae la muta sentinella di Torre di Miggiano vista da Marina Serra. In questo itinerario non poteva mancare l’omaggio a Tricase Porto dopo l’isola alle coste spumeggianti di Castro e di Otranto  e alla marina di Andrano vista da un vecchio tratturo che porta al mare dove perdere lo sguardo e ritrovarsi.

Cenni biografici
Nato a Specchia dove ha un proprio Atelier, Luigi De Giovanni vive ed opera tra il Salento e Cagliari. Diplomatosi all'Istituto d'Arte di Poggiardo e diplomatosi all'Accademia di Belle Arti di Roma, Luigi De Giovanni ha all’attivo una lunga carriera artistica che lo ha visto tenere mostre in tutto il mondo: New York, Tokyo, Parigi, Bruxelles, Madrid, Siviglia, Cannes oltre che nelle principali città italiane, da Milano a Roma, Firenze, Pisa, Ferrara, Lecce; Brindisi.
















2020-05-17

SPACE AND TIME

Pitture ad olio su tela, tecniche miste su jeans conducono ad una riflessione sulla vita e l’uomo.





“SPACE AND TIME”
Il rapporto “spazio – tempo”  è  ciò che Luigi De Giovanni  coglie e riversa, dopo averlo fatto proprio, nelle sue opere. Queste  non sono solo istantanee di ciò che  vede, ma, anche, immagini del suo animo: sensibilità che si trasferisce  nei colori sino a vivificarli  e renderli comunicativi e poetici. 
Lo  “spazio e il tempo” è colore che cambia nei diversi ambienti, con l’alternarsi del giorno e della notte, con le stagioni,  è  jeans che parla di luoghi e d’eventi, non sempre belli. 
Le pennellate che si sovrappongono, inseguendo la luce o le idee, diventano trasposizioni dei climi temporali che fanno emergere la poetica dello spirito. Mettono in luce, nel groviglio che prende forma, la follia e la cecità del genere umano che non rispetta se stesso e la sua casa: terra. 
Osservando la natura ferita, l’artista, riflette amaramente sulla sconsideratezza dell’uomo e trasla i sentimenti nelle sue opere che diventano icone di dolore  e di sogni. 
Aleggia una lirica cruda, mitigata solo dall’armonia coloristica, in un rimando continuo all’uomo, al tempo e allo spazio.
Il tempo e la natura, spazio vitale, solo apparentemente sconfitti dall‘incoscienza umana, per De Giovanni,  hanno sempre  ragione e i fatti lo dimostrano.   
La linea guida dell’esposizione è data dall’espressività aspra dei jeans che parlano, attraverso colori e segni aggressivi, di sogni infranti che coabitano con nuovi sogni, suggeriti dai  paesaggi e dai fiori. 
In queste opere si ritrova una narrazione della sterilità dell’animo umano, saccheggiatore  non solo dell’ambiente ma, spesso, anche dei sentimenti, 
Un’univocità di discorso, poetico e pittorico allo stesso modo, che trova la sua ragione d’essere nell’analisi di "spazio e tempo" che conducono alla vita e alla distruzione di essa.
“Space and time”, dai molteplici significati, titolo della mostra che vuole essere il racconto di come l’artista avverte il mondo e l’arte.
                                                                                    Federica Murgia 

2020-04-08

Rosso papavero

Rosso papavero – DE GIOVANNI LUIGI

Rosso papavero di Luigi De Giovanni.


Avventurarsi nei campi di papavero per renderli pittoricamente è stato per l’artista emozionante e travolgente. Ha trovato i fiori, accostati l’un l’altro quasi per farsi coraggio nella loro fragilità, che si piegavano alle lievi brezze, li ha inseguiti con pennellate istintive che miravano a fissare atmosfere e non forme, tingendo di rosso le tele con rimandi poetici a significati profondi di guerra, di morte ma anche di conforto. L’artista, in queste opere dipinte con istintività nei capi arrossati, pennellata dopo pennellata ha colto i fiori rossi nella loro bellezza e caducità e nell’inquietudine di antichi dolorosi significati. De Giovanni, con pennellate rapide e pastose, ha segnato i profili delle distese caratterizzate dalle sfumature che tingevano le campagne o le composizioni. Composizioni di fiori semplici, recisi, cercavano di mantenere la naturalezza mentre raccontavano di vita che li abbandonava. I boccioli della forza d’esistere coraggiosamente si aprivano pieni di speranze per reclinarsi poi in un abbandono di morte. Per la giornata del contemporaneo, l’artista realizzerà un’installazione che includerà le opere alle pareti e petali di carta dipinti di rosso, d’un rosso che strariperà per finire su fogli accartocciati e disposti a caso sul pavimento: a caso come i fiori caduti in guerra.

                                                                                      Federica Murgia













2020-03-31

QUACQUARAQUA'

Quacquaraquà




Certi della loro erudizione, i saputi, sputano le loro verità con fare sicuro affermandone oggi una sempre diversa o arricchita rispetto a quella sostenuta ieri. Hanno leggiucchiato, senza troppa attenzione per i contenuti, o sentito sprazzi di notizie, anche pruriginose, che spacciano per oggettive e giuste. Si pavoneggiano, aggiungendo di volta in volta nuovi particolari, perché hanno sentito o percepito dei frammenti di voci qua e là. Frequentemente carpiscono idee, che poi spacciano come proprie, il più delle volte appiccicate, mancando lo spirito creativo e l’ideazione che dà anima ai pensieri e alle cose. Le idee, di cui si appropriano i quacquaraquà, sono monche e riescono a sorprendere il pubblico solo per poco, in quanto, non hanno un successivo sviluppo e coerente continuità. Qualche volta riescono ad avere il seguito di persone che, anche in buona fede, prestano attenzione, e per questo vanno col petto in fuori e hanno l’aria d’essere molto importanti. I quacquaraquà parlano sul nulla convinti di essere scaltri ma, ad ascoltarli, si capisce subito che rappresentano solo la vuotezza mentale e che possono discorrere solo di pettegolezzi, di sentito dire, di cose mai approfondite. Frasi fatte, respirate e rinforzate nei gruppi chiusi, danno il senso della loro cultura e della mancanza di ricerca dell’ideativo, del giusto e del bello. S’infastidiscono quando qualcuno osa confutare l’inconsistenza contenutistica delle cose di cui parlano e continuano a pavoneggiarsi con giri di parole che giustificano solo l’ignoranza: la mancanza di sostanza interiore che possa sostenerli al di fuori delle nozioni che danno loro certezze. Questi sono i quacquaraquà che mi lasciano tutte le volte con un dubbio “ci sono o ci fanno?” Luigi De Giovanni in otto opere ha voluto raccontare il vuoto chiacchiericcio e fare un omaggio a Leonardo Sciascia che, nel libro “Il giorno della civetta”, divise gli uomini in categorie, sistemando nell’ultima proprio i quacquaraquà, persone che, secondo l’autore, <>. L’artista ha colto lo spunto e usando gli strumenti della pittura, ha trovato idee e sensazioni materializzando le angosce e le ferite che causa il pantano dei pettegolezzi sino a renderlo concreto nel colore che tinge in monocromo una tela di denuncia, diventata metafora del fango sputato inutilmente. Gocciolamenti, spruzzi, macchie essenziali, nelle opere in mostra, realizzate di getto, esprimono la rabbia istintiva del gesto pittorico che si manifesta, anche, mettendo in primo piano la parola, linea guida, “quacquaraquà”. Nell’opera “malinconia in bianco su sfondo rosa” gocciolamenti di calce, tracce di tinteggiatura di pareti d’abitazione, si rapprendono in una grande e densa macchia screpolata come se si fossero manifestati i segni del disfacimento degli ideali e dei sogni colpiti dagli schizzi melmosi. Uno sfondo rosato, traccia di speranza, contrasta con i sicuri segni bruni che esaltano il significato della cupa malinconia dell’opera che riporta ai piccoli paesi, humus che fermenta il genio ispirato, che fa avvertire sensazioni di disagio, di mancata accettazione dell’uomo per quello che è e non per quello che dovrebbe essere secondo i quacquaraquà benpensanti. Trama del racconto pittorico è la tristezza dell’animo, colpito dalle maldicenze, che si palesa nei dipinti denunciando la superficialità dei quacquaraquà che trasformano in schizzi di fango appiccicoso, che viene scagliato addosso alle persone per annullarle per allontanarle dal loro posto, anche sociale. Le gestuali macchie esprimono la cattiveria diventata tormento, mentre ripetere sulle tele la scritta “quacquaraquà” è una catarsi liberatoria che denuncia l’immobilità mentale di chi non sa rendersi conto del significato delle ferite che infligge. Una tela gialla, che si anima di allegra vitalità e della gioia di ricominciare nel bianco in esplosione, diventa la speranza che si afferma nell’opera dove da uno sfondo bruno di tela grezza, in cui si addensano macchie spesse di colore bianco, c’è la memoria delle persone che riescono a sfuggire al chiacchiericcio: al limo che le aveva circondate e ferite. Nelle opere in mostra si percepiscono le sensazioni di animi offesi e la stoltezza dei quacquaraquà: che potranno continuare con il loro impegno sparlando ed enunciando sproloqui su persone, cose o argomenti. I quacquaraquà sono rappresentati, con sagace ironia, in un omaggio a Leonardo Sciascia che con poche parole riusciva a donarci il clima di un paese dove anche le pareti delle case mormorano. L’artista con una metafora dà spunto ai loro futuri discorsi…. Federica Murgia

2020-03-30

URLO NERO

 “Urlo nero”

Un grido di dolore. Una voce che si perde nella notte di un mare blu diventato tomba. L’ululo del tempestoso vento fa udire il canto delle prefiche che si straziano per affetti altrui e le loro lacrime diventano diluvio travolgente che alza le onde sino a mostrare le oscurità degli abissi: non c’è più speranza. Scappano, i profughi, su carcasse di barche perché hanno avvertito il richiamo di morte che i tamburi di guerra evocano rullando sempre più forte. Ecco lo strazio delle persone impaurite che cercano il loro ultimo soffio di vita.
Nell’artista riaffiora la sinestesia di Quasimodo, in quella memoria ritrova l’oggi, le sue sensazioni, le sue emozioni e una società che sembra aver perduto il senno: tutto viene furiosamente fissato sulle tele dove il colore pare innalzarsi a coprire l’orrore.
Pantarei. Tutto scorre e nulla pare mutare nell’animo umano assettato di potere e sangue. Si sono perse la pace, la fede nella giustizia e nella vita, il raziocinio: il loro spazio è diventato utilitarismo, odio. Ora l’opportunità travolge i sentimenti d’amore e pare non serva più la gioiosa speranza nella religiosità del dono della vita. La bontà e la giustizia sono in putrefazione distruttiva come pure la fiducia nel futuro.
In questo clima l’artista sente “l’urlo nero” e si ritrova nella poesia “Alle fronde dei Salici” di Salvatore Quasimodo. Un altro tempo: ma, sempre, lo stesso uomo.
Lo studio “Sutta le capanne du Ripa”, in piazza del Popolo 21° a Specchia Lecce, sarà sede di una mostra, un’installazione dell’artista di Luigi De Giovanni che per la “Giornata del Contemporaneo” realizzerà una performance che parlerà di morte di guerra e di orrore ma anche di vita di pace.                                                             Federica Murgia








 Echi di guerre Ancora pochi giorni per poter visitare la mostra e l’installazione “Echi di Guerra” di Luigi De Giovanni, inaugurata per la ...