2020-04-08

Rosso papavero

Rosso papavero – DE GIOVANNI LUIGI

Rosso papavero di Luigi De Giovanni.


Avventurarsi nei campi di papavero per renderli pittoricamente è stato per l’artista emozionante e travolgente. Ha trovato i fiori, accostati l’un l’altro quasi per farsi coraggio nella loro fragilità, che si piegavano alle lievi brezze, li ha inseguiti con pennellate istintive che miravano a fissare atmosfere e non forme, tingendo di rosso le tele con rimandi poetici a significati profondi di guerra, di morte ma anche di conforto. L’artista, in queste opere dipinte con istintività nei capi arrossati, pennellata dopo pennellata ha colto i fiori rossi nella loro bellezza e caducità e nell’inquietudine di antichi dolorosi significati. De Giovanni, con pennellate rapide e pastose, ha segnato i profili delle distese caratterizzate dalle sfumature che tingevano le campagne o le composizioni. Composizioni di fiori semplici, recisi, cercavano di mantenere la naturalezza mentre raccontavano di vita che li abbandonava. I boccioli della forza d’esistere coraggiosamente si aprivano pieni di speranze per reclinarsi poi in un abbandono di morte. Per la giornata del contemporaneo, l’artista realizzerà un’installazione che includerà le opere alle pareti e petali di carta dipinti di rosso, d’un rosso che strariperà per finire su fogli accartocciati e disposti a caso sul pavimento: a caso come i fiori caduti in guerra.

                                                                                      Federica Murgia













2020-04-05

ANNO DOMINI

ANNO DOMINI – DE GIOVANNI LUIGI

Anno domini. Fuga… dalla metafisica di Antonietta Fulvio




Anno zero. Anno Domini. Comunque lo si voglia chiamare, l’inizio della cronologia coincidente con la nascita di Gesù Cristo segna un passaggio epocale. Spartiacque tra vecchio e nuovo, fu l’inizio del crollo della Roma imperiale che non riuscì gestire il cambiamento sociale derivante dalla diffusione del Cristianesimo. Sulla scia di queste riflessioni sulla Storia, e su alcune tra le pagine più importanti del Nuovo Testamento, nel suo atelier a Specchia, Luigi De Giovanni si sofferma a parlare mentre lentamente la tela bianca sul suo cavalletto si riempie di segni... simboli, caratteri...colori.
Appena un mese fa ha concluso una personale inaugurata per la Giornata del Contemporaneo dal titolo Tracce. Era partito da un’indagine sull’evoluzione di oggetti radicalmente modificati dal progresso tecnologico e usati, attraverso anche il recupero della memoria contadina, come pretesto per riflettere sulla società. Il passato e il presente. Ma al centro sempre e solo l’uomo, comunque artefice del proprio destino ma anche strettamente legato agli altri, perché l’uomo animale sociale non può vivere da solo. Ed è in relazione agli altri che l’uomo scopre le proprie capacità come i propri limiti e nel suo personale cammino lascia sempre qualche traccia dietro di sé. Tracce che vengono da un mondo interiore dove trova spazio il proprio credo spirituale e umano. Questo l’assunto di partenza di un nuovo ciclo di lavori, dedicati al tema della Natività.
“Non si può non ricordare il Natale tralasciando il martirio, la morte, il motivo per cui Dio inviò suo Figlio sulla terra. La sua nascita è legata alla rinascita, alla vittoria sulla morte grazie alla Resurrezione, icona di libertà dal peccato. La figura di Pilato è emblematica come la frase che pronunciò presentando il Cristo flagellato - Ecce homo disse - pensando che aver ridotto il Nazareno ad una maschera grondante di sangue fosse bastato ai farisei. Pilato avrebbe avuto il potere di cambiare il corso degli eventi ma non lo fece. Non riuscì a gestire il potere e, purtroppo anche se con formule diverse, la storia si ripete continuamente. Il Natale mi porta ad una riflessione sul ruolo del cristianesimo, sulla Crocifissione che è inscindibile dalla Natività e sul senso dell’esistenza in generale.”
La natività è da sempre un tema molto frequentato nell’arte che vanta capolavori assoluti: dalla rappresentazione affrescata da Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova, alla tela di Lorenzo Lotto, ad esempio, che dipinse la devozione della Sacra famiglia inserendo in un angolo buio della grotta proprio il crocifisso. Alla Natività, purtroppo persa, del Caravaggio che dipinse una Vergine, donna e madre ancora prostrata dalla fatica del parto mentre guarda il suo Divino Bambino: in quella posa che non ha nulla di santo è racchiusa tutta la santità dell’evento ma anche l’inevitabile senso del dolore, di quel presagio di morte che è scritto anche nel destino del figlio di Dio.
Sovrapposta alla precedente festività pagana del Sol Invictus, o a quella Ebraica detta Hanukkah, entrambe celebrate il 25 dicembre, la nascita di Gesù Bambino è la festa che celebra il miracolo della vita, l’unico che vede protagonisti anche noi poveri mortali; ma Cristo nasce per un miracolo ancora più grande, la Resurrezione che implica il sacrificio, il dolore, la morte.
“La vita è un insieme di emozioni e sensazioni contrastanti. É amore e disperazione, gioia e dolore, ma anche lotta e tensione verso la felicità. E’ quel che io chiamo il problema delle 24 ore.” E dal destino di dolore che Cristo trae la sua forza, ecco perché l’artista non sceglie di rappresentare il momento della nascita ma il simbolo del sacrificio, passaggio obbligato e scritto dall’Onnipotente perché quella frattura tra Dio e l’Uomo potesse essere colmata.
Come per la personale Tracce, l’artista sceglie di realizzare accanto ad alcune tele una composizione risultante dall’ assemblaggio di dodici moduli - 12 i mesi dell’anno, 12 gli apostoli - un enorme quadrato dove la tradizionale rappresentazione della Natività lascia il posto ad una composizione nuova, provocatoria. Al centro della tela una grande croce, rossa. E poi la frase Ecce Homo, le sigle SPQR, INRI che campeggiano in lungo e largo sulla tela, sovrapponendosi in alcuni punti, richiamando inevitabilmente l’attenzione sui loro significati reconditi. Il colore rosso sembra zampillare come stille di sangue, l’idea del sacrificio è intrinseca nella forma stessa della croce, affiancata da due scale: la scala di Nicodemo diventa per l’artista simbolo dello status sociale: “l’evento religioso della Crocifissione si insinua nella Storia, ne diventa parte integrante la persecuzione del Cristianesimo per la Roma imperiale fu un grande errore politico, l’inizio della fine... i Romani avevano già sconfitto altri popoli in precedenza inglobando la loro cultura; si pensi ad esempio a Cartagine, ma con Israele le cose andarono diversamente”.
D’altra parte un sistema schiavista quale era l’impero avrebbe mai potuto accettare la religione che riteneva tutti gli uomini uguali? che gli ultimi sarebbero stati i primi? che bisognava amare il prossimo come se stessi?
“L’uomo per natura è egoista e, nonostante siano passati tre millenni, senza contare i precedenti, pensa solo al proprio benessere, fa niente se per raggiungerlo deve schiacciare gli altri. Non è un caso che il pesce, simbolo di Cristo nell’iconografia cristiana, sia raffigurato in una forma ben lontana dalla stilizzazione classica perché nella sua grossezza ho voluto rappresentare la falsa ambizione di essere detentori della conoscenza. Da questo punto di vista siamo ancora nelle caverne, il nostro sguardo è dentro la grotta, non fuori. Le paure ancestrali che ci portiamo dentro sono sempre in agguato, la paura del buio come della solitudine, della sofferenza, della morte opprimono il nostro esistere e rendono sempre più problematiche le nostre 24 ore”.
Il blu, colore spirituale per eccellenza, predomina nelle tele dove elementi simbolici come le scale rappresentano una società che continua a vivere in precario equilibrio tra croci che non sono grondanti di sangue ma, bianche o azzurre, rappresentano l’uomo con gli insoluti interrogativi di sempre, quelli che fecero nascere nell’antica Grecia la filosofia.... interrogativi come croci sparse nello spazio pittorico che diventa metafora del mondo, del tempo che viviamo. Il segno sempre più incisivo e materico definisce volumi che si sovrappongono sul piano in un rincorrersi di linee curve e spezzate quasi ad evocare il percorso difficile e tortuoso che è la vita per ogni singolo individuo e, per esteso, della comunità intera. I colori intensi, quasi violenti, diventano espressione dei sentimenti, delle passioni, delle sensazioni che affollano la mente e il cuore dell’uomo di tutti i tempi.
Lo sguardo che l’artista prima rivolgeva ai luoghi dello spazio sono sempre più introiettati al proprio sentire, all’io che cerca di farsi strada tra il groviglio di pensieri che la vita stessa scatena. Ogni tanto qualche giallo/lampo di luce suggerisce il legittimo interrogativo ma una via di fuga esiste?
“É la metafisica, il sogno. - La risposta decisa dell’artista- É nella spiritualità che l’uomo ritrova il coraggio e la determinazione per affrontare i propri demoni, di vivere la propria esistenza riscoprendo la consapevolezza che la forza della rinascita è la libertà del pensiero. Come insegna il messaggio evangelico la libertà nasce dalla sofferenza, dal dolore.”
L’allestimento, curato dall’architetto Stefania Branca, affianca alla modulazione pittorica un’installazione così come accaduto nelle recenti personali tenutesi nell’atelier che, da luogo di ideazione e realizzazione dell’opera, si fa anche spazio interattivo con il pubblico. In virtù di un percorso che continua, tracce di gesso renderanno bianca la pavimentazione dove tra santini e rosari, icone di fede, ognuno potrà almeno per un momento riflettere sul significato più autentico del Natale. Un Natale lontano dalla festa consumistica, e non solo per il clima di recessione, ma perché traccia di una spiritualità ritrovata.










2020-04-02

RIVOLUZIONE

RIVOLUZIONE

L’evento “Rivoluzione” è un momento di denuncia dei drammi dell’umanità auto provocati dall’uomo accecato dall’egoismo e dalla sete di potere. Il concetto è narrato da trentasei tele bianche che interpretano la parola “pace” e da un bidone diventato mastello contenente una melma rossastra, rigirata con un grosso bastone dai visitatori.
Il titolo dà un’idea del sogno che nel tempo ha mosso i popoli che chiedevano d’esistere e che è diventato spesso incubo e tomba dove è seppellito con la giustizia e la fiducia nell’avvenire. Ora non bastano le solite parole che hanno animato gli ideali, troppo spesso crollati il giorno dopo… quel giorno che doveva essere della pace, a giustificare la partecipazione a rivoluzioni vuote come le tele bianche che sperano d’essere colorate da un’ispirazione felice.
Le tele bianche, dove neanche un artista ha voluto dipingere, si animano dalla parola “pace” presagendo venti di dolore. Dolore per un lavoro che manca, per la giustizia che non vede applicati i suoi principi, per la libertà condizionata dai poteri, per gli animi feriti nella speranza: l’oggi è triste, il domani appare minaccioso.
Nel mastello, interprete della terra, si avvertono i fermenti della ribellione contro i soprusi e i gioghi che hanno privato le persone della dignità del lavoro, della libertà, dell’uguaglianza: miraggi infranti che, spesso, hanno precipitato interi paesi in climi medievali. Le mani tengono ben fermo il bastone del potere che nel rimestare forma bolle e grumi minacciosi che si gonfiano sino a esplodere in rivolta incontrollata, essendo venuta a mancare la speranza di cambiamento. È il mastello, vecchio bidone arrugginito e sporco, che nei segni del tempo racconta tristemente di dura fatica mai ricompensata adeguatamente e di sfruttamento doloroso.
Il bastone, sporcato dall’egoismo e dall’arroganza, racconta dei potenti diventati prepotenti senza scrupolo che non si curano delle istanze di quel popolo fiducioso che li ha scelti. 
Un'installazione e una performance che servono a Luigi De Giovanni per raccontare della povera gente che, pur avendo vissuto la rivoluzione, non conta nulla nella scacchiera di quei pochi potenti che ne decidono, “rimestando” di continuo nel mastello del mondo, le sorti.
Il gesto partirà da un grande bidone, riempito di un denso liquido rosso scuro, situato al centro dello studio con dentro il bastone che servirà a rimestare: l’azione verrà fatta dai visitatori e le poche persone, che riusciranno a usare il “bastone” del potere, rimestando simboleggeranno i potenti che incuranti dei diritti dei poveri, si spartiscono le ricchezze sino a ridurre interi popoli alla fame. Nel pavimento, ricoperto da polveri bianche schizzate di rosso vermiglio e da ombre di colore tetro, si avvertiranno le tracce di rivoluzione anche osservando l’implorazione delle trentasei piccole tele (cm 20x20 ciascuna) che esalteranno la forza delle idee di pace che, purtroppo, svaporano in violenza che si diffonde coinvolgendo sempre più persone del popolo perse nel vuoto: un vuoto che porta molto spesso “dalla padella nella brace”.
                                                                Federica Murgia

















2020-03-31

QUACQUARAQUA'

Quacquaraquà




Certi della loro erudizione, i saputi, sputano le loro verità con fare sicuro affermandone oggi una sempre diversa o arricchita rispetto a quella sostenuta ieri. Hanno leggiucchiato, senza troppa attenzione per i contenuti, o sentito sprazzi di notizie, anche pruriginose, che spacciano per oggettive e giuste. Si pavoneggiano, aggiungendo di volta in volta nuovi particolari, perché hanno sentito o percepito dei frammenti di voci qua e là. Frequentemente carpiscono idee, che poi spacciano come proprie, il più delle volte appiccicate, mancando lo spirito creativo e l’ideazione che dà anima ai pensieri e alle cose. Le idee, di cui si appropriano i quacquaraquà, sono monche e riescono a sorprendere il pubblico solo per poco, in quanto, non hanno un successivo sviluppo e coerente continuità. Qualche volta riescono ad avere il seguito di persone che, anche in buona fede, prestano attenzione, e per questo vanno col petto in fuori e hanno l’aria d’essere molto importanti. I quacquaraquà parlano sul nulla convinti di essere scaltri ma, ad ascoltarli, si capisce subito che rappresentano solo la vuotezza mentale e che possono discorrere solo di pettegolezzi, di sentito dire, di cose mai approfondite. Frasi fatte, respirate e rinforzate nei gruppi chiusi, danno il senso della loro cultura e della mancanza di ricerca dell’ideativo, del giusto e del bello. S’infastidiscono quando qualcuno osa confutare l’inconsistenza contenutistica delle cose di cui parlano e continuano a pavoneggiarsi con giri di parole che giustificano solo l’ignoranza: la mancanza di sostanza interiore che possa sostenerli al di fuori delle nozioni che danno loro certezze. Questi sono i quacquaraquà che mi lasciano tutte le volte con un dubbio “ci sono o ci fanno?” Luigi De Giovanni in otto opere ha voluto raccontare il vuoto chiacchiericcio e fare un omaggio a Leonardo Sciascia che, nel libro “Il giorno della civetta”, divise gli uomini in categorie, sistemando nell’ultima proprio i quacquaraquà, persone che, secondo l’autore, <>. L’artista ha colto lo spunto e usando gli strumenti della pittura, ha trovato idee e sensazioni materializzando le angosce e le ferite che causa il pantano dei pettegolezzi sino a renderlo concreto nel colore che tinge in monocromo una tela di denuncia, diventata metafora del fango sputato inutilmente. Gocciolamenti, spruzzi, macchie essenziali, nelle opere in mostra, realizzate di getto, esprimono la rabbia istintiva del gesto pittorico che si manifesta, anche, mettendo in primo piano la parola, linea guida, “quacquaraquà”. Nell’opera “malinconia in bianco su sfondo rosa” gocciolamenti di calce, tracce di tinteggiatura di pareti d’abitazione, si rapprendono in una grande e densa macchia screpolata come se si fossero manifestati i segni del disfacimento degli ideali e dei sogni colpiti dagli schizzi melmosi. Uno sfondo rosato, traccia di speranza, contrasta con i sicuri segni bruni che esaltano il significato della cupa malinconia dell’opera che riporta ai piccoli paesi, humus che fermenta il genio ispirato, che fa avvertire sensazioni di disagio, di mancata accettazione dell’uomo per quello che è e non per quello che dovrebbe essere secondo i quacquaraquà benpensanti. Trama del racconto pittorico è la tristezza dell’animo, colpito dalle maldicenze, che si palesa nei dipinti denunciando la superficialità dei quacquaraquà che trasformano in schizzi di fango appiccicoso, che viene scagliato addosso alle persone per annullarle per allontanarle dal loro posto, anche sociale. Le gestuali macchie esprimono la cattiveria diventata tormento, mentre ripetere sulle tele la scritta “quacquaraquà” è una catarsi liberatoria che denuncia l’immobilità mentale di chi non sa rendersi conto del significato delle ferite che infligge. Una tela gialla, che si anima di allegra vitalità e della gioia di ricominciare nel bianco in esplosione, diventa la speranza che si afferma nell’opera dove da uno sfondo bruno di tela grezza, in cui si addensano macchie spesse di colore bianco, c’è la memoria delle persone che riescono a sfuggire al chiacchiericcio: al limo che le aveva circondate e ferite. Nelle opere in mostra si percepiscono le sensazioni di animi offesi e la stoltezza dei quacquaraquà: che potranno continuare con il loro impegno sparlando ed enunciando sproloqui su persone, cose o argomenti. I quacquaraquà sono rappresentati, con sagace ironia, in un omaggio a Leonardo Sciascia che con poche parole riusciva a donarci il clima di un paese dove anche le pareti delle case mormorano. L’artista con una metafora dà spunto ai loro futuri discorsi…. Federica Murgia

2020-03-30

URLO NERO

 “Urlo nero”

Un grido di dolore. Una voce che si perde nella notte di un mare blu diventato tomba. L’ululo del tempestoso vento fa udire il canto delle prefiche che si straziano per affetti altrui e le loro lacrime diventano diluvio travolgente che alza le onde sino a mostrare le oscurità degli abissi: non c’è più speranza. Scappano, i profughi, su carcasse di barche perché hanno avvertito il richiamo di morte che i tamburi di guerra evocano rullando sempre più forte. Ecco lo strazio delle persone impaurite che cercano il loro ultimo soffio di vita.
Nell’artista riaffiora la sinestesia di Quasimodo, in quella memoria ritrova l’oggi, le sue sensazioni, le sue emozioni e una società che sembra aver perduto il senno: tutto viene furiosamente fissato sulle tele dove il colore pare innalzarsi a coprire l’orrore.
Pantarei. Tutto scorre e nulla pare mutare nell’animo umano assettato di potere e sangue. Si sono perse la pace, la fede nella giustizia e nella vita, il raziocinio: il loro spazio è diventato utilitarismo, odio. Ora l’opportunità travolge i sentimenti d’amore e pare non serva più la gioiosa speranza nella religiosità del dono della vita. La bontà e la giustizia sono in putrefazione distruttiva come pure la fiducia nel futuro.
In questo clima l’artista sente “l’urlo nero” e si ritrova nella poesia “Alle fronde dei Salici” di Salvatore Quasimodo. Un altro tempo: ma, sempre, lo stesso uomo.
Lo studio “Sutta le capanne du Ripa”, in piazza del Popolo 21° a Specchia Lecce, sarà sede di una mostra, un’installazione dell’artista di Luigi De Giovanni che per la “Giornata del Contemporaneo” realizzerà una performance che parlerà di morte di guerra e di orrore ma anche di vita di pace.                                                             Federica Murgia








URLO NERO

 “Urlo nero”

Un grido di dolore. Una voce che si perde nella notte di un mare blu diventato tomba. L’ululo del tempestoso vento fa udire il canto delle prefiche che si straziano per affetti altrui e le loro lacrime diventano diluvio travolgente che alza le onde sino a mostrare le oscurità degli abissi: non c’è più speranza. Scappano, i profughi, su carcasse di barche perché hanno avvertito il richiamo di morte che i tamburi di guerra evocano rullando sempre più forte. Ecco lo strazio delle persone impaurite che cercano il loro ultimo soffio di vita.
Nell’artista riaffiora la sinestesia di Quasimodo, in quella memoria ritrova l’oggi, le sue sensazioni, le sue emozioni e una società che sembra aver perduto il senno: tutto viene furiosamente fissato sulle tele dove il colore pare innalzarsi a coprire l’orrore.
Pantarei. Tutto scorre e nulla pare mutare nell’animo umano assettato di potere e sangue. Si sono perse la pace, la fede nella giustizia e nella vita, il raziocinio: il loro spazio è diventato utilitarismo, odio. Ora l’opportunità travolge i sentimenti d’amore e pare non serva più la gioiosa speranza nella religiosità del dono della vita. La bontà e la giustizia sono in putrefazione distruttiva come pure la fiducia nel futuro.
In questo clima l’artista sente “l’urlo nero” e si ritrova nella poesia “Alle fronde dei Salici” di Salvatore Quasimodo. Un altro tempo: ma, sempre, lo stesso uomo.
Lo studio “Sutta le capanne du Ripa”, in piazza del Popolo 21° a Specchia Lecce, sarà sede di una mostra, un’installazione dell’artista di Luigi De Giovanni che per la “Giornata del Contemporaneo” realizzerà una performance che parlerà di morte di guerra e di orrore ma anche di vita di pace.                                                             Federica Murgia










 Echi di guerre Ancora pochi giorni per poter visitare la mostra e l’installazione “Echi di Guerra” di Luigi De Giovanni, inaugurata per la ...